LA PERCEZIONE DELLA DEVIANZA URBANA di M.Mancini

LA PERCEZIONE DELLA DEVIANZA URBANA di M.Mancini

SICUREZZA REALE E PERCEPITA. LA DEVIANZA COME CONCETTO RELATIVO

di Massimiliano Mancini (1)

AbstractSi osserva spesso che la popolazione di un contesto più o meno ampio, come un quartiere, una città o una regione avverta e lamenti un senso di insicurezza che non è suffragato dai dati criminologici. La percezione della criminalità e della sicurezza è misurabile oggettivamente sulla base dei reati commessi oppure risente di fattori soggettivi che portano a considerare gravi comportamenti addirittura leciti? Quali comportamenti allora sono utili e quali paradigmi di riferimento sono da adottare per un efficace sistema di sicurezza? In questo breve articolo si propone una riflessione sociologica e psicologica.

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(1)Segretario Generale UPLI, già comandante dirigente di Polizia Locale e Provinciale, criminologo esperto in psicologia investigativa, giudiziaria e penitenziaria.

 

Premessa

Per comprendere e gestire la sicurezza in ambito urbano e nazionale bisogna partire dalla devianza e dalla percezione del crimine come fatto sociale che spesso prescinde dalla qualificazione giuridica, così come spesso è discrepante il livello di criminalità percepita a livello soggettivo da quella rilevata dai dati oggettivi delle statistiche criminologiche.

La gestione della sicurezza di un contesto richiede politiche integrate che partano dalla conoscenza del territorio, della popolazione e dei meccanismi sociologici e psicologici che sottintendono alla risposta della popolazione di un gruppo sociale.

La risposta efficace per il crimine, partendo dalla conoscenza del contesto, richiede l’intervento sinergico non solo delle forze di polizia, ma anche politiche efficaci che agiscano a favore della cultura, delle infrastrutture e contro il degrado urbano e sociale.

Come si devia

Per devianza si intende comunemente ogni atto o comportamento (anche solo verbale) di una persona o di un gruppo che viola le norme di una comunità, siano esse norme formalmente emanate come le leggi o norme informali come le tradizioni e i costumi, e che di conseguenza va incontro a una qualche forma di sanzione o di reazione sociale, da quelle formali e giuridicamente definite e amministrate, come nel caso delle sanzioni penali o amministrative, a quelle informali che si configurano nelle molteplici forme delle reazioni sociali di tipo morale, come ad esempio sono il biasimo, l’esclusione o lo stigma.

Il termine deriva etimologica da deviare [=uscire dalla via ordinaria per volgere in un’altra direzione] indicando sul piano del significato formale le azioni o i comportamenti, di un individuo o di un gruppo, che la maggioranza dei membri della collettività giudica che violi le norme condivise e che di conseguenza va incontro a una qualche forma di sanzione, disapprovazione o discriminazione.[1]

I gruppi sociali fanno regole e tentano, in alcuni momenti e in alcune circostanze, di farli rispettare, le regole sociali definiscono le situazioni e il tipo di comportamento appropriato per loro, specificando alcune azioni come giuste e proibendo agli altri di sbagliare, quando viene applicata una regola, la persona che si suppone che abbia infranto può essere vista come una tipo speciale di persona, di cui non ci si può fidare e quindi un deviante.[2]

La teoria della social cognition

La cognizione sociale o intelligenza sociale è un paradigma derivante dal processo di apprendimento sociale secondo la teoria della social cognition, una corrente nata negli Stati Uniti negli anni settanta del XX secolo, che studia le modalità con cui gli individui attribuiscono un senso alla loro esistenza e interpretano il comportamento proprio e degli altri.[3]

L’obiettivo della cognizione sociale è quello di fornire spiegazioni meccanicistiche e orientate al processo di complessi fenomeni sociali[4], in sostanza in questo modello è dominante la concezione di un sistema cognitivo controllato da un principio cardine “ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo”, quindi il bisogno di “conoscere” la realtà circostante al fine di orientare il proprio comportamento in modo adattivo all’ambiente in cui si vive. .

Per ottenere questo scopo l’individuo, nella necessità di ordinare le proprie conoscenze sul mondo, ricorre a delle “euristiche” [da εὑρίσκω, letteralmente “scopro” o “trovo”], ossia delle scorciatoie di giudizio che consentono di decidere anche in assenza di dati sufficienti ossia schematizzazioni acritiche preconcette, processi  in  larga  parte automatici,  che avvengono  al  di  fuori  della  nostra volontà.

Le euristiche sono efficaci, accessibili a tutti a prescindere dal livello sociale e culturale e per questo generano conformismo e rigidità di giudizio, ad esempio generano allarme sociale gli stranieri, come tutti coloro che non si conoscono, i soggetti trasandati, gli atteggiamenti trasgressivi e tutto ciò che viola i costumi e le tradizioni dell’ambiente sociale.

«Incontrando un suo simile, impari a dedurne a prima vista la storia e il mestiere o la professione che esercita. Per quanto possa sembrar puerile, questo esercizio acuisce lo spirito di osservazione e insegna dove si deve guardare e che cosa si deve cercare. Dalle unghie di un uomo, dalle maniche della sua giacca, dalle scarpe, dalle ginocchia dei calzoni, dalle callosità delle dita, dall’espressione, dai polsini della camicia… da ognuna di queste cose si può avere la rivelazione del mestiere di un uomo. Che tutte queste cose messe assieme, poi, possano mancar di illuminare l’indagatore che sa il fatto suo, è virtualmente inconcepibile».

Sherlock Holmes, Uno studio in rosso.[5]

La razionalità limitata

Il meccanismo degli automatismi di giudizio, che spesso sfociano negli stereotipi o nei casi più gravi possono generare addirittura il pregiudizio, degli schemi di ragionamento automatici, del pensiero dominante, ossia dei meccanismi che sono stati chiamati euristiche, potremmo pensare che derivano da un meccanismo di sopravvivenza che tende a limitare il tempo e le risorse impiegate nel ragionamento.

Leon Festinger nel 1957[6] ha spiegato il fenomeno delle dissonanze cognitive per descrivere la situazione di complessa elaborazione cognitiva in cui credenze nozioni opinioni esplicitate contemporaneamente nel soggetto in relazione ad un tema si trovano in contrasto funzionale tra loro.

In questo modo si spiegano i terribili fenomeni per i quali spesso gli investigatori si “innamorano” di una ipotesi investigativa che li allontana dalla verità, oppure è quel fenomeno che permette ridurre la contraddizione interna al soggetto che si comporta in maniera contraddittoria, ad esempio di chi organizza ronde di cittadini per contrastare i furti e poi acquista merce a un prezzo troppo esiguo per non intuirne la provenienza illecita, oppure di chi promuove fiaccolate contro le prostitute e poi le frequenta o di chi manifesta atteggiamenti omofobi e poi frequenta transessuali.

Gli psicologi Amos Tverskysono e Daniel Kahnemane, quest’ultimo insignito del premio Nobel per l’economia 2002 assieme a Vernon Smith, sono stati i pionieri negli studi sulle distorsioni del giudizio[7], noti anche come Bias Cognitivi, che alterano la percezione della realtà sia a livello psicologico e individuale, sia a livello collettivo e sociologico.

Herbert Simon, psicologo premio Nobel per l’economia nel 1978, che è stato probabilmente il primo ad aver introdotto il concetto delle euristiche, sostiene che l’essere umano opera all’interno della razionalità limitata, da cui la teoria della bounded rationality[8], e a questo proposito coniò il termine “satisficing”, per indicare che le persone cercano soluzioni ai loro problemi ritenendosi soddisfatte di risposte soddisfacenti per i loro fini  anche se queste soluzioni non siano realmente ottimizzate.

Le regole di uno specifico gruppo sociale sono quindi rispettate acriticamente per un meccanismo euristico di conformismo derivante dalla interiorizzazione delle convinzioni, dei valori e dei comportamenti accettati o rifiutati dal contesto e soprattutto per il fatto che adottandole si ottengano risultati soddisfacenti per la vita sociale e la convivenza.

Ad esempio in questo modo si ottiene accettazione sociale, rispetto, considerazione e quindi anche successo economico e una vita relativamente facile, pur se quel modello di vita non è ottimale, non è quello che vorremmo e spesso ci condanna a grosse rinunce e frustrazioni.

Concezione relativistica della devianza

«Non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un reato, ma è un reato perché lo biasimiamo

Émile Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893)[9].

 

La famosa frase di Durkheim[10] esprime un assioma relativistico della devianza che è dimostrato dai fatti, ossia che l’atto è considerato deviante non per la natura stessa del comportamento, ma per la risposta che suscita nell’ambiente socioculturale in cui ha luogo quindi per definire un’azione come deviante si devono tener conto delle variabili del contesto storico, politico e sociale e della situazione.

Il concetto di devianza nell’esperienza comune può avere più interpretazioni: quella negativa di violazione di norme (sociali e giuridiche) e quella neutrale di scostamento positivo/negativo da un criterio di normalità, dal comportamento ‘deviante’ si passa facilmente al concetto di persona ‘deviante’, un’etichetta che si attribuisce alle persone che si comportano in un modo così definito socialmente.

Per quanto gli studiosi abbiano cercato di mantenere un approccio avalutativo, considerando deviante tutto ciò che è al di là di una curva di normalità, il comportamento deviante, e quindi il soggetto deviante, è diventato sinonimo di disapprovazione sociale.

Quindi traslando la definizione a livello criminale ne consegue che non è il reato che definisce la sanzione, ma è la sanzione che stabilisce cos’è reato, tuttavia la creazione normativa e la definizione della fattispecie di reato scaturisce da un comportamento che la società ritiene intollerabile e quindi deviante dai propri valori, in questo senso Becker[11] negli anni ’60 diceva che:

«Non sono le motivazioni devianti che conducono al comportamento deviante, ma, al contrario, è il comportamento deviante che produce, nel corso del tempo, la motivazione deviante».[12]

Conclusioni

La sicurezza percepita e la risposta sociale conseguente è funzione della cultura e delle tradizioni di un luogo e di un contesto che prescinde dalle regole fissate oggettivamente, al punto che si può osservare come alcuni comportamenti destino allarme sociale anche se sono leciti ai sensi di legge.

Ad esempio ingenerano grande allarme sociale i “quartieri a luci rosse”, oppure il proliferare della prostituzione, che non è vietata dalla legge né punita da alcuna norma, eppure spesso si osservano risposte dei residenti che arrivano ad essere esse illegali, spesso sfociando in manifestazioni non autorizzate o addirittura in reazioni violente, con il paradosso che si reagisce illegalmente a fenomeni legali.

La presenza di immigrati, per citare altri casi, rispecchia l’atteggiamento atavico della sfiducia e del timore verso il diverso, infatti il termine hostis in latino indica allo stesso modo lo straniero e il nemico.

Quindi l’approccio alla gestione della sicurezza, in particolar modo in un contesto urbano, non può basarsi solo sulla predisposizione di una efficace risposta, in termini quantitativi e qualitativi, di polizia o, come semplicisticamente si tende a rispondere su un piano politico con una maggiore presenza di forze di polizia su un determinato territorio.

D’altronde cosa potrebbero fare più volanti in una zona di tossicodipendenti, a parte spostare la piazza di spaccio ma non certo quella di consumo degli stupefacenti, comportamento che non costituisce reato, ovvero nelle zone frequentate dalle prostitute?

Al contrario la risposta efficace deve partire da una analisi del conteso territoriale, sociale, culturale a cui devono seguire risposte integrate su piani non solo criminologici ma anche e soprattutto culturali e in particolare sul piano psicologico e sociologico.

 

[1] Enciclopedia Treccani, voce devianza in www.treccani.it.

[2] C.Howard S.Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, EGA-Edizioni Gruppo Abele, Torino 2003.

[3] L.Arcuri, L.Castelli, La cognizione sociale: Strutture e processi di rappresentazione. Laterza 2000.

[4] Winkielman, P. & Schooler, J. In press. Unconscious, conscious, and meta-conscious in social cognition. In Social cognition: the basis of human interaction (eds F. Strack & J. Förster). Philadelphia, PA: Psychology Press.

[5] A.Conan Doyle, Uno studio in rosso. BUR 2012.

[6] Leon Festinger, A Theory of Cognitive Dissonance. California, Stanford University Press 1957, nella traduzione italiana: Teoria della dissonanza cognitiva. Franco Angeli Editore 1973.

[7] Kahneman, D., Slovic, P., & Tversky, A. (Eds.). Judgment under uncertainty: Heuristics and biases. Cambridge University Press, New York 1982.

[8] Simon, H. A. Models of bounded rationality. Cambridge, MA: MIT Press 1982.

[9] Émile Durkheim, La divisione del lavoro sociale. Il saggiatore 2016.

[10] Émile Durkheim (1858–1917) è stato un sociologo, antropologo e storico delle religioni francese. E’ considerato con Herbert Spencer, Vilfredo Pareto, Max Weber e Georg Simmel uno dei padri fondatori della moderna sociologia, la sua opera è stata cruciale nella costruzione, nel corso del XX secolo, della sociologia e dell’antropologia, avendo intravisto con chiarezza lo stretto rapporto tra la religione e la struttura del gruppo sociale.

[11] Howard Saul Becker (1928-) è un sociologo statunitense che ha dato un grande contributo alla sociologia della devianza, alla sociologia dell’arte e alla sociologia della musica.

[12] Howard S.Becker, Outsiders. Studies in sociology of deviance, The free press, New York 1963.

 

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